La sostenibilità ambientale va ben al di là delle notorie implicazioni derivanti dal cambiamento climatico (alluvioni e inondazioni, venti estremi e protratte cappe di caldo che stanno dominando la cronaca delle ultime settimane). Si riferisce infatti anche alla scarsità ed all’esaurimento di risorse naturali finite, quali ad esempio la disponibilità di terra coltivabile e di acqua potabile, che devono indirizzare i bisogni crescenti, quanti e qualitativi, di una popolazione mondiale che è attesa crescere fino a 10 miliardi nel 2050. Oltre al tema di “scarsità” (queste risorse non sono rinnovabili – e.g. le terre si inaridiscono se mal coltivate e tanto più velocemente per effetto dell’innalzamento delle temperature), esiste poi un tema di “sovranità” (queste risorse sono diversamente allocate su base geografica, per effetto della globalizzazione – e.g. i grandi granai d’Europa e del medio oriente sono concentrati in Ucraina, con i rischi conseguenti collegati al conflitto con la Russia). Oltre a un tema di “vivibilità” (riconducibile al clima ed all’inquinamento) esiste dunque un secondo rischio esistenziale della “alimentabilità” (legato alla continua e sufficiente disponibilità di cibo di qualità per le grandi città e agglomerati urbani su cui si concentrerà il 75% della popolazione). Fortunatamente, l’innovazione tecnologica e la trasformazione dell’agri-food (con alcune tendenze già visibili) posso offrire una risposta efficace anche a questo secondo rischio, ma necessitano di un nuovo approccio per l’investimento e la gestione di tale cambiamento.
In particolare, l’agricoltura ed il cibo di precisione (grazie agli sviluppi in ambito biomolecolare), ed un approccio digitale ed hi-tech alle colture (grazie alle tecniche c.d. CEA – Controlled Environment Agriculture, e VF – Vertical Farming) possono indirizzare sia il tema della “scarsità” (aumentando la produttività per ettaro di terreno o di altra risorsa finita) sia della “sovranità” (potendo permettere la prossimità territoriale di coltura, anche presso i centri urbani e quasi a prescindere dalla disponibilità di vaste quantità di terreno ed acqua). A titolo esemplificativo, Singapore (città-Stato con un estensione pari alla metà di Londra ed appena l’1% del terreno dedicato a coltura, con oltre il 90% del proprio cibo importato) è recentemente diventata leader mondiale nella produzione di carne rossa prodotta in laboratorio da cellule animali coltivate. Attraverso una politica di innovazione estensiva nell’agri-food, non solo Singapore punta a supportare un processo di transizione “green” (l’allevamento per la produzione di carni rosse è tra i principali produttori di sostanze inquinanti e di metano in particolare – responsabile dell’effetto serra), ma anche a garantirsi una maggiore stabilità – sui volumi, prezzi e qualità – della propria catena alimentare (con un target di produzione in loco triplicato al 30% entro il 2030).
L’opportunità per investire massicciamente in agricoltura e cibo sostenibile dunque esiste, ma è ad oggi principalmente relegata all’ambito VC (Venture Capital, con investimenti speculativi ed aspettative di ritorno atteso di breve-medio periodo). L’innovazione tecnologica e la trasformazione conseguente nei modelli di business è inoltre tipicamente soggetta al ciclo “boom and bust” (Curva di Adozione di Gartner). Molte delle prime iniziative di CEA e VF sono oggi a un passo dal Chapter 11 in America, con casi notori di start up (ad es. Beyond Meat – produttore di hamburger composti da proteine vegetali) che, dopo iniziali IPO di grande successo, hanno perso ad oggi gran parte del loro valore borsistico.
L’innovazione e la trasformazione dell’agrifood, per poter essere di reale successo, superando la fase di inevitabile “bust” al fine di realizzare gli obiettivi di sostenibilità di cui necessariamente dobbiamo dotarci, richiede infatti una diversa tipologia di capitale, capace di garantire volumi di finanziamenti ancora maggiori ed anche un approccio meno speculativo e con orizzonti d’investimento di lungo e lunghissimo periodo. Occorre, in altre parole, rendere “mainstream” l’investimento nel settore dell’agrifood potendo, in particolare, contare su sottostanti (i terreni, le fattorie, i boschi, le falde acquifere) dalla forte natura anti-inflattiva e con grandi caratteristiche di resilienza secolare (difficilmente potremo farne a meno, considerati i trend demografici e una domanda di cibo sempre più complessa e strutturata).
Per quello che riguarda l’Italia, oltre ai temi dell’innovazione e dei capitali, si pone poi un tema di frammentazione, con i primi operatori domestici oggi in grado di gestire una scala pari ad appena qualche decina di basis point degli ettari complessivamente coltivati. Anche in questo caso, un intervento di capitale privato di lungo-lunghissimo periodo potrebbe operare quel cambiamento nella governance necessario per mettere a scala la produzione, con importanti sinergie di scopo anche sulla distribuzione (a partire da un maggior potere contrattuale con gli “off-takers” – la Grande Distribuzione Organizzata capace di moltiplicare – tenendo per sé maggiori margini – il prezzo del prodotto alimentare pagato dal consumatore finale). Un settore agricolo maggiormente concentrato e professionalizzato potrebbe quindi permettersi ben diversi investimenti sull’innovazione, adottando eventualmente un approccio misto – valorizzando al meglio la componente di coltura “orizzontale”, tramite il suo “consolidamento ed ottimizzazione”, investendo al contempo nella nuova componente a “temperatura controllata e verticale”, quale driver di “sviluppo e innovazione” (capace oltre tutto di gestire al meglio le stagionalità – a ciclo continuo – e di proteggersi dagli eventi climatici estremi, diversificando dunque il rischio operativo collegato alla prima modalità di coltura “tradizionale”). Fondi d’investimento, anche dotati di capitale permanente o “evergreen”, attraverso una politica d’investimento bilanciata sui due fronti, potrebbero offrire proposizioni di rischio/ rendimento interessanti per gli investitori istituzionali domestici e anche per la clientela privata, aggiungendo diversificazione a portafogli tipicamente poco esposti su beni di questo tipo, nonostante la loro rilevanza strategica, prima ancora che finanziaria.
Quale razionale economico potrebbe d’altronde spingerci a non investire in beni primari quali l’agri-food (con una componente high-tech), dato il contesto attuale dominato da rischi macroeconomici, geopolitici e climatici estremi? Mai come in questo caso vale la pena di suggerire di “investire come mangi”.
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