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Nasa, la sfida per produrre e coltivare cibo nello Spazio


Produrre e coltivare cibo nello Spazio. È l’obiettivo di uno dei progetti della Nasa, con lo scopo di ipotizzare l’autonomia alimentare, almeno in parte, nelle stazioni spaziali, per non dover dipendere dall’approvvigionamento di cibo dalla Terra. Un progetto internazionale, rivolto ad aziende hi tech, che potevano presentare e proporre le loro soluzioni più innovative. Adesso, si è appena conclusa la prima fase del Deep Space Food Challenge, competizione lanciata dalla Nasa e parallelamente dalla Canadian Space Agency in collaborazione con la Methuselah Foundation. Lunedì 15 novembre Martha Stewart, istituzione culinaria e televisiva negli Stati Uniti, e l’ex astronauta Scott Kelley, hanno annunciato anche sul canale tv della Nasa, i vincitori, scelti all’inizio del mese, tra cui anche un team italiano. «Abbiamo la possibilità di pensare ad avere buon cibo anche per viaggi spaziali così lunghi», ha detto la conduttrice.

È dal 12 gennaio 2021 che inventori, ricercatori, chef, piccole e grandi aziende agroalimentari sono stati chiamati dalla Nasa a sviluppare idee per produrre o coltivare cibo nello spazio in maniera sostenibile, riducendo quindi gli sprechi e l’uso di risorse. La sfida non è solo tecnologica. Un aspetto fondamentale è creare cibo nutriente e gustoso, senza dimenticare che nello Spazio la percezione del gusto cambia. Il cibo, anche nel deep space, è un momento di condivisione sociale e di comfort, soprattutto quando si è così lontani da casa. Poter avere una scelta diversificata su cosa mangiare, senza dover fare affidamento solo sul cibo confezionato solitamente in uso durante questi viaggi, può avere un forte impatto psicologico sugli astronauti. «Iniziamo ad avere un’idea sul tipo di tecnologia che potremo utilizzare per la cucina sulla Luna o su Marte», ha detto Monsi Roman, responsabile di uno dei programmi della Nasa.

A essere premiati, tra le oltre 180 squadre che hanno partecipato, sono stati dieci team internazionali tra cui l’azienda milanese Jpworks e 18 team statunitensi – ciascuno dei quali ha vinto anche 25.000 $ -: questi due gruppi parteciperanno alla fase due. Sono poi stati premiati, a parte, anche dieci team canadesi. Le proposte inviate hanno sviluppato idee molto diverse tra loro. Si va dai sistemi che usano polveri che, una volta reidratate, danno cibi più complessi (come ad esempio il pane), ma anche strumenti per coltivare in assenza di forza di gravità piante o carne sintetica, partendo in questo caso da cellule staminali o da insetti essiccati. Altri ricercatori hanno pensato di convertire anidride carbonica e rifiuti in cibo tramite microorganismi e stampanti 3D. Il progetto italiano si è concentrato sulla coltura di piante nello spazio, nello specifico di «nanoplants» e micro-ortaggi in un ecosistema autonomo ed individuale, che ottimizza risorse e tempistiche.

La seconda fase del Deep Space Food Challenge non è ancora stata avviata, ma prevede che vengano realizzati i prototipi di alcuni dei progetti che hanno superato la fase 1. La ricerca aero-spaziale ha un impatto anche per chi astronauta non è: questi progetti possono essere innovativi anche sulla Terra, nonostante siano stati concepiti per un’applicazione al di fuori dell’atmosfera. Potrebbero, infatti, essere sfruttati per l’agricoltura urbana, banalmente, ma anche in luoghi del mondo con risorse naturali limitate. «Queste soluzioni possono aprire nuove strade anche per la produzione alimentare mondiale in regioni e luoghi con poche o scarse risorse o colpite da disastri climatici o meteorologici», ha sottolineato Robyn Gatens, giudice della competizione e direttore del programma Iss (International Space Station).


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